domingo, 1 de febrero de 2015

I Presocratici da Talete ai Sofisti

Giulio Pagallo







ERACLITO
(ρκλειτος) di EFESO, figlio di Blysone. – Filosofo presocratico, la cuiconcezione del divenire incessante della realtà, rappresenta l'antitesi più diretta alla teoria dell’immutabilità dell’essere sostenuta da Parmenide; opposizione che nei sistema posteriori, sino a Platone e Aristotele, sarà motivo per una nuova e più elaborata formulazione della metafisica e la teoria della conoscenza.

SOMMARIO: I. Vita e opere di E.: tradizione dossografica e interpretazioni moderne - II. Significato e valore della sapienza. - III. Il divenire della realtà e i contrari; il fuoco ed il Logos. - IV. Il significato del «discorso» di E.

1. VITA E OPERE DI E.: TRADIZIONE DOSSOGRAFICA E INTERPRETAZIONI MODERNE – Poco sappiamo della sua vita; è probabile che le notizie riportate dalla dossografia - che lo dice attivo negli anni della 6a olimpiade, cioè nel 504-501 a. C. (DIO. LAE., IX, 1-17: DK FVS, 22 A I) -, siano rielaborazioni di quanto, nei suoi scritti, sembrava riferirsi al carattere del filosofo. Erede del re di Efeso, al cui titolo rinunciò a favore del fratello, e di portamento orgoglioso (STRABONE, XIV, 3: A 2; DIO LAE. cit.)., E. avrebbe avuto uno scambio di lettere con Dario, re di Persia dal 522 al 486 a.C., del quale tuttavia non accolse l'invito di recarsi a corte (ibid.; CLEMENTE AL., Strom., I, 65: A 3). Per quanto E. dichiarasse di non aver avuto altro maestro che se stesso (A, Ia), la cronologia della sua vita, e più ancora l'analisi del suo pensiero, ci consentono di situare la sua filosofía all’interno dello sviluppo della filosofia presocratica, fra Pitagora e Senofane da un lato, e Parmenide dall'altro. Contro i primi, il filosofo di Efeso indirizza esplicitamente le parole polemiche di un frammento (B 40); mentre, per consenso pressoché unánime degli interpreti, l’opera di PARMENIDE, fondatore dell’ELEATISMO, contiene un giudizio molto severo nei confronti dell’intuizione filosofica centrale di E., «da cui l'essere e il non essere sono ritenuti identici e non identici, per cui di tutte le cose il cammino è reversibile» (DK cit., 28 B 6). La tesi contraria, secondo la quale E., più giovane di Parmenide, avrebbe invece conosciuto l'opera dell'eleate e si sarebbe riferito al monismo ontologico dell’eleate, per affermare più risolutamente il principio opposto della «guerra» dei contrari e dell’universale fluire delle cose -, è stata sostenuta con sottigliezza non convincente da KARL REINHARDT, in un libro giustamente famoso del 1916. In effetti, la critica eraclitiana, con maggior cautela, ha preferito muoversi in due diverse direzioni: da un lato, si è tentato di sostituire all’ordine esteriore assegnato per scrupolo filologico ai framm. da HERMANN DIELS nella sua grande raccolta, una disposizione che rispecchiasse, nei limiti del possibile, se non il «sistema», almeno la successione degli argomenti via via affrontati nello scritto originale; altri studiosi, invece, si sono volti a ricostruire il significato autentico della speculazione di E., puntando a riesaminare, sulla base dei framm. conservati, le testimonianze di PLATONE ed ARISTOTELE; e di qui, risalire al nucleo originario della dottrina, liberato dal peso delle assimilazioni operate successivamente dallo STOICISMO e SCETTICISMO. In questo senso, per esempio, è stata sollevata la questione se le tesi eraclitiane del «tutto scorre» e del «fuoco» produttore di tutte le cose, vadano giudicate come indizi rilevanti del rapporto di continuità che l’indagine di E. manterrebbe, nonostante tutto, con le cosmologie delle «scuole» anteriori, specialmente con quella di Mileto; o se, al contrario, testimonino l’avvenuto distacco del filosofo dalle dottrine tradizionali, in quanto egli non mirerebbe tanto a scoprire l’«origine-principio» della natura, quanto a rivelare la «verità» della «legge» immutabile che regola, nel profondo, l’eterno divenire degli eventi. Documento intensamente teoretico di questa prospettiva interpretativa, appare la lettura dei framm. condotta da MARTIN HEIDEGGER, nel quadro di una suggestiva quanto discussa «ripetizione» dell’intera filosofia dei «presocratici»: la presunta «oscurità» di E., debe essere intesa come espressione genuina del pensiero «originario», non ancora prigioniero della metafisica che ama rappresentarsi l’«essere» come «sostanza», dimenticandone la dimensione autentica; perciò all’«oscuro» di Efeso è aperta la possibilità di pensare l’«essere» nella «natura» ( e cioè il manifestarsi dell’«ente» e il suo venire alla luce (del fuoco) e alla «verità», fuori dall’«occultamento» (). Come è noto, anche il filosofo dell’idealismo GEORG WILHELM HEGEL, nel corso delle Lezioni sulla storia della filosofia, si era soffermato, all’inizio del sec.XIX, sull’«oscurità» di E., che, contrariamente alla valutazioni stilistica e a quella del deliberato propósito (secondo il giudizio di CICERONE), ritenne espressione della profondità speculativa del pensatore, il quale per primo aveva saputo attingere il «principio» dialettico della realtà, consistente nell’«universale concreto» della sintesi degli opposti. Gli studi più recenti, pur raccogliendo l’indicazione di un E. «dialettico», hanno badato a precisare la questione, soprattutto contestualizzando in modi più precisi la pluralità delle strutture oppositive che si riscontrano nei framm.

II. IL SIGNIFICATO DELLA «SAPIENZA». - Dell'unica opera Sulla Natura () composta da E., conserviamo un centinaio di framm. in prosa ionica, il cui stile, sin dall’antichità, è stato giudicato enigmatico e forse rispondente ad una scelta consapevole del loro autore. In realtà, il tono oracolare e il linguaggio fortemente simbolico usati da E., mirano a porre in guardia chi legge o ascolta, predisponendolo alla rivelazione del «logos», o «parola» autentica, che, in quanto tale, è insieme «verità» e «realtà» universale: «Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano sempre secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte» (B 1).
Tuttavia, proprio di questo si tratta, giacché «vi è una sola sapienza: conoscere la Mente che tutto governa penetrando in tutto» (: B 41). Ma a questo sapere superiore non si accosta chi rimane chiuso nelle pratiche rozze e deliranti dei riti magici e delle credenze religiose: «rimedi» (B 68) che a nulla conducono, se è vero che gli iniziati ebbri non riescono a nascondere la loro ignoranza (B 95), e gli adepti non ricavano dai sacrifici cruenti alcuna regola che li aiuti a vivere (B 117; cfr. B 71). Anche ciò che dicono i poeti è condannato da E., poichè i loro versi si limitano spesso a riflettere le superstizioni religiose più diffuse nel popolo, nei confronti delle quali attuano semplicemente come tecnica sistematrice e purificatrice (ERODOTO, II, 53). Anche Omero ed Esiodo pretendono di comunicare l’intelligenza delle cose divine e umane, e proclamano il principio che «tutto è uno»; eppure, a loro sfugge l’essenziale, l'unità profonda delle cose visibili (cfr. B 56, 57). Il canto degli aedi, in realtà, perpetua nella pigra coscienza dei più, massime e precetti che non hanno verità né fondamento: contro la loro vanagloria, E. rinnova la entenza di BIANTE, l’antico sapiente (DK FVS, 10 A,3): «i molti sono cattivi, i buoni pochi» (B 104). L'aristocratico disprezzo per ciò che i poeti e le sette religiose presumono di insegnare, nasce dalla consapevolezza che il filosofo ha di non poter ripetere da altri, se non dal proprio impegno razionale e dall'osservazione personale, la soddisfazione della inesauribile domanda filosofica: «i limiti dell'anima forse non potrai mai trovarli, qualsiasi via tu percorra: così ha profonda la sua ragione» (: B 45). E. «diceva di aver ricercato da sé e da sé tutto aver appreso» (A 1; cfr. B 101); ma questa che il dossografo chiama «stranezza», racchiude il segreto e la ricchezza della sua e di ogni altra filosofia, per la quale, sempre, «uno vale diecimila» (B 49). In questa presa di coscienza, è dato cogliere un’ulteriore testimonianza di quell’appello alla indagine personale e diretta delle cose (), presente, oltre che in E., in tutta la tradizione filosofica e scientifica ionica, i cui rappresentanti, mentre procedono alla razionalizzazione delle teogonie e cosmogonie tradizionali, danno alle proprie parole il tono della critica e del distacco individuale. Non diversa, apparentemente, la proposizione eraclitea: «Io ho cercato in me stesso» (B 101); ma in questo caso, l'individuo non è il singolo ( ), poiché egli riconosce se stesso negli altri, in quanto «a tutti è comune la facoltà di pensare» (B 113) e «a tutti gli uomini è possihile conoscere se stessi ed essere saggi» (B 116). La partecipazione degli uomini alla «sapienza», è esperienza di verità e realtà: essa induce a seguire «ciò che è comune», vale a dire «questo logos comune» (B 2), perché chi «parla con intelligenza deve appoggiarsi su ciò che è comune a tutti, come una città sulla legge, anzi molto più saldamente. Poiché tutte le leggi umane sono nutrite dall'unica legge divina, in quanto essa domina tanto quanto vuole, e basta a tutti e trionfa» (B 114). L’universalità del «principio», di per sé non è sufficiente a garantirne il possesso da parte di tutti: proprio per attingere il piano dell’auspicata partecipazione, a ciascuno è imposto, infatti, di superare i limiti del punto di vista personale (B 2); e al sonno delle opinioni è contrapposta la veglia del vero sapere (B 1). La polarità dei termini usati, dà risalto alla condizione aporetica in cui viene a trovarsi inizialmente la ricerca della verità, dopo che sono stati revocati in dubbio non solo i dati dell’esperienza sensibile, ma anche le certezze trasmesse dalla tradizione e dal costume.
A segnalare l’altezza della meta prefissata, E. può dire che «di quanti intesi la parola, nessuno giunse a questo, a conoscere, cioè, che la sapienza è una cosa separata da tutte le altre» (B 108); in questo senso, la critica rivolta alle dottrine degli altri scrutatori della natura, i fusiolovgoi, più che tradire la polemica invidiosa, ha il carattere del superiore inveramento, operato da chi è finalmente giunto al logos comune e osserva quanti vivono nel mondo illusorio della loro privata intelligenza (B 89; cfr. 2). Questa si nutre delle certezze sensibili; ma colui che, allontanandosene, riesce a riflettere sul mutare continuo delle percezioni, capisce quanto le loro attestazioni siano problematiche: esse, infatti, non solo si susseguono incessantemente, ma sono, a ben vedere, discontinue e, a causa dell’assolutezza cui ciascuna pretende, recíprocamente antitetiche. Da un lato, dunque, il «fluire di tutte le cose», allorché viene affermato nella sua più perentoria immediatezza, rende impossibile la conoscenza: «non è possibile discendere due volte nello stesso fiume» (B 91), perché «sopraggiungono sempre altre e altre acque» (B 12); e noi stessi «scendiamo e non scendiamo in uno stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo» (49). D'altra parte, la difficoltà – che nasce all’interno di quell’orizzonte d’indagine che E. ha in comune con quanti prima di lui hanno ricercato l’origine () del mondo -, non si risolve traducendo la molteplicità cangiante degli enti, in quella non meno caotica dei «nomi». In questo caso, l'intelligenza «privata» del singolo crede di poter dominare la realtà attraverso il linguaggio; ma è un’illusione, perché i nomi dicono solo aspetti parziali delle cose; anzi, tendono a fissarne i fluidi rapporti in separazioni o esclusioni insormontabili. C’è chi ha cura di accumulare notizie e raccogliere dati: «nomi» appunto; ma «sapere tante cose ( non insegna ad avere intelligenza», cioè quel sapere vero che né Esiodo né Pitagora, né Senofane né Ecateo ebbero mai (B 40; cfr. 129). Anche loro «anime barbare», in un certo senso, come quelli che credono, non guidati dalla ragione, alla testimonianza degli occhi e delle orecchie (SESTO EMP., Adv. math., VII, 126 sgg.), e non riescono a cogliere «l'armonia nascosta che è migliore dell’apparente» (B 54): insomma, anche di quei personaggi può dirsi che sebbene «presenti, sono assenti» (B 36) all'intuizione dell’unità del Logos (50).

III. IL DIVENIRE DELLA REALTÀ E I CONTRARI; IL FUOCO E IL LOGOS. - A questa unità occorre ritornare sempre di nuovo, se si vuole penetrare a fondo il divenire e la molteplicità dell’esperienza, disponendone la ricchezza sterminata secondo la trama intelligibile del «discorso» razionale. La distinzione fra i molti «nomi» e l’unità del «principio» reale, che E. ha stabilito polemicamente nei confronti dei filosofi ionici ed italici -, serve a introdurre l’ulteriore approfondimento della ricerca: gli enti che i «nomi» mostrano, conservano in sé, in certa misura, la «ragione», o natura, del Logos immutabile che produce le cose e le governa in ogni punto. «Prendere nome» () equivale, da questo punto di vista, al «trasformarsi» () del Logos (B 67) nelle realtà che vengono all’esistenza, manifestando in ciascuna di esse e nel loro insieme, la potenza autónoma ed infinita che gli è propria, come l’anima che cresce su se stessa, in virtù della ragione che le appartiene (B 115). Ora che E. procede sulla via costruttiva del sistema, la frammentazione derivante dall’imposizione dei «nomi», appare sotto una nuova luce: la natura particolare di ciascuna cosa si concilia il continuo reale, dato che nelle «parole» in cui il «logos che è sempre» si manifesta, è possibile leggere la vera legge del principio comune (B I). Solamente in questo modo, l’indagine sui «nomi» evita di essere esercizio superficiale ed il confronto fra i diversi loro significati fa emergere assonanze concettuali e reali, ciascuna delle quali reca ulteriore conferma dell’unità del Tutto. Le due vie «all’in su» e «all’in giu» - per cui, da un lato, le cose molteplici sono ricondotte all’«origine» unica da cui provengono; e, in senso contrario, dal «principio» depende necessariamente l’esistenza di ogni ente - sono, in realtà, figure di uno stesso cammino, poiché esse riflettono la natura peculiare del Logos, che contiene in sé i momento inscindibili dell’unità e della distinzione (B 10; 60). Del Logos si dice, inoltre, che si comunica a tutto e di tutto partecipa, per cui esso è la «misura» dell’ordine che regna nel cosmo, cui nulla si sottrae. In ognuna di queste note, è ribadita la natura profondamente ambivalente del «principio», che può essere detto «comune», solo in quanto è in sé unificazione del molteplice e dell'uno: la sua natura più vera consiste, infatti, nell'essere legge di «armonia reciprocamente tesa» (B 51).

All’opinione che ritiene che i contrari si escludano reciprocamente, E. obietta che gli stessi devono essere pensati, invece, come specularmente integrati; nel senso che le cose che compongono la realtà, possiedono una comune struttura oppositiva, che risulterebbe descritta in modo del tutto insufficiente, ove si facesse riferimento unicamente al contrasto che mantiene separato l’un contrario dall’altro. Anche la cosmologia di ANASSIMANDRO (v.), in effetti, prevede la lotta dei contrari in seno all’«infinito»; e ANASSIMENE (v.) fa ricorso al processo di condensazione e di rarefazione dell’«aria»; più tardi, EMPEDOCLE (v.) escogiterà la contrapposizione fra Amore e Contesa. Ma proprio sul ruolo dell’opposizione e la diversità che separa, a questo proposito, il pensiero di E. da quello empedocleo, si sofferma PLATONE (Soph., 242 D), il quale osserva come per il filosofo di Efeso ogni momento dell'essere riproduca in sé la natura ambivalente del «principio». Uno e molteplice, esso è sempre, secondo E., «tutto e non tutto, connesso e separato, concorde e discorde» (B 10); e «il dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, carestia ed abbondanza» (B 67; cfr. 65), tanto che «vuole e non vuole essere chiamato Zeus» (B 32): iI «tutto», perciò, non può evidentemente coincidere con uno dei contrari, preso separatamente. Questione importante, e altrettanto difficile, è, invece, capire il significato profondo di ciò che E. chiama l’«opposto concorde», che sa trarre «dai discordi bellissima armonia» (B 8); ed è quella verità che il filosofo, come «il signore il cui oracolo è a Delfi, non dice né  nasconde, ma segnala» ( B 93), e che nessuno finora è riuscito acomprendere. Essa è l’armonia che scaturisce dalla struttura oppositiva «comune» ad ogni ente; per cui, tutto ciò che esiste, «pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira» (B 51), e quella per cui «nel circolo principio e fine fanno uno» (B 103); essa è il vincolo della giustizia superiore che tiene uniti i contendenti e fa della contesa la «misura» stessa di ogni esistenza, a cui niente e nessuno potrà mai sottrarsi (B 80; cfr. B 94). Dando credito a opinioni ed esperienze ingannevoli, nel loro dire e fare gli uomini si comportano come se enti separati e fra loro estranei costituissero il mondo; occorre invece tener fermo il principioche «il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazità fame, e muta come , quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi» (B 67); che, dunque, «unico e comune è il mondo» (B 89) e che «la stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi» (B 88; cfr.B 126). Allo stesso modo, «gli uomini hanno considerato alcune cose ingiuste, altre giuste», quando invece «per Dio, tutte le cose sono belle, buone e giuste» (B 102). Nessun giudizio di valore che isoli il positivo dal negativo, pertanto, accede all’intelligenza della natura dell’intero, dato che l’essenza stessa dell’«uno-tutto» si dispiega nelle «connessioni» ( che tengono insieme «intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose» (B 10). Coincidenza dei due processi, per cui il Logos tanto più esercita la sua funzione coesiva, quanto più si distingue ed opone nella varietà delle esistenze; così come queste ultime di quanto si divaricano nell'opposizione, di tanto rientrano nella struttura razionale dell'unica legge.

È necessario, tuttavia, conservare la «misura» storica del «logos» di E., ed interpretare l’originalità del «principio» dialettico che il filosofo annuncia, senza trascurare le suggestioni poetiche e religiose che ne condizionano il concreto suo manifestarsi, e i collegamenti che esso conserva con le teogonie e cosmogonie precedenti. In questo senso, il pensatore «oscuro» eredita la tradizione dei «fisiologi», e prosegue il processo di razionalizzazione del mito genealogico. Anche per E., infatti, la teoria generale della realtà si risolve, in larga parte, nei temi dell’«origine-principio» del mondo, e il «logos» può essere legge immanente del divenire, perché ne è, insieme, la causa materiale. L'interpretazione trova conferma dall'analisi del fram. 30, dove l'universalità dell'ordine cosmico, che è il medesimo per tutti (vale quanto la sua durata infinita nel tempo e coincide con il «fuoco vivente in eterno» (), il quale «con misura si accende e con misura si spegne» (), e, così facendo, produce da sé tutte le cose. Se si tiene conto che di «ciò che è» ingenerato e imperituro, PARMENIDE dirà che «non era mai, né mai sarà, poiché è ora insieme come totalità» , 5), il contrasto puntuale tra le due concezioni dell’essere in rapporto al tempo, illumina la dimensione autentica della filosofia eraclitea.

In questa prospettiva, la dottrina di E. appare come l’ultimo tentativo, prima della «crisi» aperta dall’ELEATISMO (V.), di pensare in termini rigorosi il nucleo centrale del mito e delle cosmogonie antiche, vale a dire il rapporto fra il «principio» originario divino, e il tempo. Il «fuoco» di cui parla E., per l’ambivalenza che gli deriva dall’essere «connessione» di opposti, viene idealmente prima dell'antinomia fra essere e non essere, sollevata dalla logica eleatica; la sua «misura» non è l’«ora» () del presente senza fine, ma l'indeterminatezza temporale dell'ajeiv, la cui progressione non conosce termine. Di qui deriva la rappresentazione cosmologica del «fuoco», inteso come principio delle sue proprie «mutazioni» , che scandiscono la successione e durata delle realtà prodotte (B 31); la cui molteplicità, peraltro, è così intrínsecamente connessa alla natura del principio, da non potersi considerare prolungamento «esterno» e posteriore di quello: «mutamento scambievole di tutte le cose col fuoco e del fuoco con tutte le cose, allo stesso modo dell’oro con tutte le cose e di tutte le cose con l’oro» (B 90). Mutano senza fine le forme concrete in cui il «fuoco» si manifesta; ed il ciclo incessante di vita e morte degli individui, che rappresenta il «mutamento» originario ed essenziale del «principio», riflette in se stesso l’armonia discorde dell’«uno-tutto» che manifesta.

La complessità delle questioni introdotte da E., emerge pienamente allorché il tema cruciale dell’unificazione degli opposti, viene formulato nel linguaggio della rappresentazione cosmologica. Nel passaggio, il profilo logico della struttura oppositiva perde in precisione, e subentrano coppie di contrari empiricamente esemplificate, formalmente dissimili, ma tutte riferite al «fuoco» sostanza universale. Tutto questo è certamente conferma di un’ancora insufficiente distinzione fra descrizione e definizione, giudizio d’esistenza e predicazione; occorre, comunque, prendere atto di come la dottrina del «fuoco», pur rimanendo all'interno della mentalità ionica, cerchi di dar risposta anticipata alla difficoltà che Aristotele avanzerà nei confronti del modelo cosmologico usato dai presocratici: «Infatti, quando pure ogni generazione e corruzione fosse da uno solo, ovvero anche da molti elementi, perché poi ha luogo e quale ne è la causa?» (ARISTOTELE, Metaph., A, 984 a). Da un lato, infatti, avendo trasferito nella mobilità materiale del «fuoco» la legge logica dell’unificazione dei contrari, quest’ultima si risolve nel sistema delle «connessioni» empiricamente describili; le quali, peraltro, conformemente alla «via all’in su», trovano fondamento nella sostanza primigenia, sottratta all’indeterminatezza dell’apeiron di ANASSIMANDRO. D'altro canto, la permanente mobilità della natura ignea, meglio dell’«acqua» o dell’«aria» dei «fisiologi» milesii, è «segnale» adeguato degli aspetti costitutivi della natura e della loro intrínseca connessione: non semplice simbolo, il «fuoco» dà volto, in primo luogo, alla legge che regola dal profondo e rende intelligibile la vicenda perpetua della vita e della morte; secondariamente, è materia che si trasforma (ibid., A, 984 a 18), e che «discorrendo» nelle sue varie trasformazioni, le mantiene ordinate «secondo quella stessa legge (» che esisteva prima che ciascuna di esse si manifestasse, divenendo l’una o l’altra cosa (B 31); logos che non è diverso dal «fuoco» eterno che si accende esi spegne «con misura» (cfr. B 30).

Le fasi della produzione cosmica si susseguono circolarmente e per antitesi: in un caso, «l'anima muore in acqua e l'acqua muore in terra; ma dalla terra nasce l'acqua e dall'acqua l'anima» (B 36). Pertanto, analogamente al punto geometrico, la cui unità contiene in sé perfettamente coincidenti il principio e la fine della circonferenza -, il «fuoco», che è «uno-tutto», unifica in se stesso i termini che nell’esperienza appaiono separati, senza mai sostare presso l’una o l’altra delle singole determinazioni (B 50; 10). Proteso fra gli estremi della produttività più intensa ( o della più raccolta pienezza ( fra lo stato di indigenza e quello di abbondanza, il «fuoco» si scambia mutuamente con le sue produzioni (B 90), e su tutte imprime il suggello dell’ambivalenza formale e materiale che appartiene al «principio».

La concezione radicale che E. ha del movimento incessante del reale, come fiume dalle «acque sempre diverse» (B 12), in cui è impossibile bagnarsi due volte (B 49a; 91), e per cui «il sole è ogni giorno nuovo» (B 6), nulla ha a che vedere con quanto l’ERACLITISMO (V.) posteriore sembra abbia sostenuto, concependo il mondo come mera successione di eventi-percezioni assolutamente irrelati, in nessun modo riconducibili ad un qualche disegno unitario. Al contrario, nelle acque del fiume eracliteo che scorrono sempre nuove, si specchiano nitidi i profili dell’identico e del contrario, della guerra e della pace, nel cui costante richiamo si manifesta «la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto»  B 41), la quale sottopone le molte forme dell’esperienza ad una sempre uguale «misura», così come dall’unica legge divina traggono alimento tutte le leggi umane (B 114).

IV. IL SIGNIFICATO DEL DISCORSO DI ERACLITO - Concordemente alla visione miticoreligiosa del mondo, la «guerra»  dei contrari che è «comune» a tutte lecose e per la quale «tutto accade secondo contesa e necessità»  B 80), assume valore di legge etica. Le letture moderne più avvedute di E. – salvo adottare qualche rubrica di pratica utilità -, non hanno imitato i commentatori antichi, separando i testi presuntamente «fisici», da quelli di argomento teologico ed etico-politico. In verità, non esiste discontinuità alcuna nel «discorso» del filosofo di Efeso: l’invito che egli rivolge agli uomini, di prestare ascolto alla ragione, riguarda indistintamente il loro impegno conoscitivo e pratico.

Allargare il campo della propria particolare esperienza e riconoscere il logos, impone il dovere di «seguire ciò che è comune» (B 2), per non «agire e parlare come se si stesse dormendo» (B 73). Due momenti indissociabili: la sapienza  che «consiste nel dire e fare cose vere, comprendendole secondo la loro natura» (B 112) – altrimenti anche il mondo più bello non sarebbe che un mucchio di polvere raccolto alla rinfusa (B 124) -, nel mentre consente di capire che ogni cosa vive «secondo giusta misura» (B 30), insegna anche a «spegnere la superbia  ancor più dell’incendio» (B 43) e a realizzare la virtù della moderazione. Criterio di condotta suggerito, in primo luogo, dall’ininterrotto trasformarsi del «fuoco», che ordina il destino di ogni essere sensibile; ma che, in ultima istanza, deriva dai significati etici e giuridicamente normativi che quel medesimo «ordine» porta con sé. Infatti, alla luce della «contesa» universale che la pone in essere, la diversità delle cose, oltre a rispondere alla necessità «fisica», ubbidisce a una precisa norma di diritto naturale: «la guerra è padre di tutte le cose e di tutte re: e gli uni fece che apparissero dei, gli altri uomini; gli uni fece servi, gli altri liberi» (B 53). In questo modo, l'opposizione, che come Logos divino trascina ogni ente ed è condizione indispensabile delle cose («le cose esistono secondo contesa e necessità»: 80), diventa, alla fine, valore e strumento di superiore giustizia (ibid.). La vita dell’uomo, come di ogni altro vivente, è inscritta nel fiume dell'esistenza, le cui acque – osserva ARISTOTELE -, non prima si allentano e poi di nuovo si raccolgono, ma insieme si concentrano e si separano, simultaneamente (B 91); ma da questa vicenda cosmica, che non avviene a caso, dato che è lo stesso «logos» divino che la governa per sì e per no, come in un doppio discorso -, ogni individuo e ogni città ha l’obbligo di desumere l’insegnamento morale più importante. Perché se la guerra è ovunque presente – nelle conflagrazioni mondiali, come là dove più ostile ferve la lotta delle passioni nello Stato e nell'animo dell’individuo -, e se la lacerante contesa vive essa medesima in uno con la pace, virtù suprema è la moderazione. Che è poi la saggezza di chi sa riconoscere l’alternanza necessaria dei contrari, e perciò si fa interprete dell'armonia nascosta e bellissima che nutre e rende perfetta ogni cosa.

Non dunque la vita del singolo in quanto tale è male; bensì il gesto di chi non tiene lontana da sé la tentazione dell’isolamento caparbio, l’illusione di poter fermare, dentro e fuori di sé, la trasformazione incessante. Ritornando, in un certo senso, al detto famoso di ANASSIMANDRO (v.), E. condanna colui che, credendosi unicamente «figlio dei propri genitori» (B 74), «ha dimenticato dove porta la strada» (B 71) del «fuoco sapiente e causa del governo di tutte le cose», il quale, «sopraggiungendo, giudicherà e condannerà» (B 63) quanti avranno preteso di vivere come singoli, oltre la «misura» che a tutti è stata assegnata: perfino «il Sole non andrà oltre la sua misura: altrimenti, le Erinni, ministre della Giustizia, lo scopriranno» (B 94). Tale è la «superbia», il peccato di tracotanza  di coloro i quali, colpevolmente ignari del calcolo perfettissimo che regola ogni evento, si lasciano guidare dalla propria intelligenza «privata», che non sa vedere oltre se stessa e giudica «estranee le cose in cui ogni giorno si imbattono» (B 72), e verso le quali spesso agiscono con violenza sopraffatrice. «Di fronte alla divinità» (B 79), le opinioni umane si rivelano per quello che sono: «giuochi di fanciulli» (B 70), e gesti scomposti di scimmia (B 72). Eppure, «a tutti gli uomini è dato conoscere se stessi ed essere saggi» (B 116), non andando oltre la giusta «misura».


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